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Momenti di Gloria, Obdulio Varela, l' uomo che fece piangere il Brasile

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LoZioTazio
view post Posted on 1/7/2006, 06:40




Rio de Janeiro, 1950



Obdulio Varela è il capitano della nazionale urugaiana, la celeste, che sfida il favoritissimo Brasile nella finale dei Campionati del Mondo di calcio.

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Lo stadio Maracanà, costruito appositamente per l'occasione, ribolle di tifosi (quasi 200.000) e di entusiasmo. I giocatori brasiliani hanno già ricevuto alla vigilia degli orologi d'oro con la scritta "AI CAMPIONI DEL MONDO" sul dorso. Sono già state vendute 500.000 magliette con scritte inneggianti alla vittoria.

Negli incontri precedenti i verdeoro hanno schiacciato gli avversari, rifilando sei gol sia alla Svezia che alla Spagna, mentre l'Uruguay ha faticosamente pareggiato con la Spagna 2 a 2 e vinto con la Svezia

3 a 2. Al Brasile basta pareggiare per vincere il titolo, ma tutti quei tifosi reclamano altro, e, a dire il vero, anche il mondo intero...



Prima della partita, alcuni dirigenti della federazione uruguaiana dicono a Obdulio che si sarebbero contentati di perdere con pochi gol di scarto; "Sono sicuro che la vinceremo questa partita" è la risposta del capitano.

A quell'epoca Obdulio ha già 33 anni ed è esperto quanto basta per sapere che ce la possono fare; "Non guardate mai le tribune; la partita si gioca qui sotto", dice ai compagni più giovani.

Non dà la mano all'arbitro, non lo ha mai fatto: rispetta gli arbitri, quello sì, ma non ha mai dato loro la mano, perché "poi la gente dice che vai a leccare il culo a chi dirige la partita".



L'inizio è buono: il Brasile non è poi la squadra imbattibile che sembra e il primo tempo finisce zero a zero.

Ma il secondo tempo la squadra di casa comincia a riversarsi in massa nell'area avversaria e al sesto minuto, con Friaça, segna il gol dell'1 a 0: sembra l'inizio della fine.

Obdulio intuisce il rischio, raggiunge la sua porta, raccoglie il pallone e lo serra tra il braccio destro e il corpo. Il capitano dell'Uruguay pianta gli occhi in faccia a tutti i tifosi e con passo lento, lentissimo, si dirige verso il centro del campo, senza rivolgere parola a nessuno.

I giocatori brasiliani lo insultano, c'è persino chi gli sputa, ma lui non si scompone: passano più di tre minuti prima che raggiunga il centro del campo e chieda un interprete.

Obdulio vuole protestare perché il guardalinee aveva segnalato un fuorigioco per poi abbassare la bandierina, anche se sa che la protesta non verrà accolta. il suo vero obiettivo è quello di mettere più tempo possibile tra il gol e la ripresa del gioco, in modo che i giocatori brasiliani non possano far funzionare la loro macchina da gol e il pubblico non la possa vedere.



Quando il gioco ricomincia, i brasiliani, accecati dall'ira, non sono più gli stessi e Obdulio è un direttore d'orchestra che domina la scena.

"Avevo giocato un mucchio di partite dappertutto, in campi senza protezioni, senza reti, sempre in balìa del pubblico... Dovevo proprio umiliarmi al Maracanà, dove ero al sicuro al cento per cento? Lì dovevo dominare, perché ne avevo tutte le possibilità e sapevo che nessuno poteva toccarmi", dice il capitano.

Schiaffino infila il gol del pareggio, facendo ammutolire un'intera nazione, e Ghiggia, nel finale, completa l'opera col gol dell'1 a 2; l'Uruguay è campione del mondo!



Il silenzio esplode sul Maracanà, il silenzio più straordinario e irreale di tutta la storia del calcio: la gente non riece a credere che il colosso sia morto in casa sua, spogliato di gloria.

Ary Barroso, autore di Aquarela do Brasil e radiocronista della finale, decide di abbandonare la carriera di cronista.

Jules Rimet si aggira per il campo con in mano la coppa destinata al vincitore e nella tasca il discorso in omaggio del Brasile campione.



Obdulio si trova in mano la coppa quasi per caso.



Passa quella notte bevendo birra insieme agli sconfitti, e dichiarerà poi "Se adesso dovessi giocare di nuovo quella finale, mi segnerei un gol contro, sissignore... Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tuta quella tristezza?"

Il giorno seguente fugge dalla folla che lo aspetta all'aeroporto di Montevideo. Il premio per la vittoria gli è appena sufficiente per comprare una Ford scassata del 1931, che gli rubano dopo una settimana.



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Obdulio, el capitan



Indimenticabile. Perché se ti imbatti in uno dal nome così non te lo scordi di certo. Ma Obdulio Varela dopo il 18 luglio 1950 non ha più avuto bisogno di presentarsi a nessuno: ancora oggi per tutti è "il" capitano. Forse il più grande di sempre, non solo in ambito calcistico. Perché è difficile trovarne un altro capace di tirare fuori da sé e dai suoi compagni il meglio e qualcosa di più, in ogni occasione in cui è sceso in campo.

Varela era il capitano dell'Uruguay campione del mondo 1950. Una squadra passata alla storia perché capace di mandare al tappeto una nazione intera già pronta a celebrare «la prima vittoria mondiale del meraviglioso Brasile». La vittoria dell'Uruguay sulla nazionale verdeoro al Maracanà è ricordata come la più grossa sorpresa nella storia delle finali dei mondiali di calcio. In realtà non si trattava di una finale vera e propria, perché il Mondiale del 1950 era un minicampionato a tredici squadre, divise in due gironi all'italiana, con minitorneo finale tra le migliori quattro. Solo il destino ha voluto che l'ultima partita in programma, Brasile-Uruguay, risultasse decisiva. Al Brasile bastava un pareggio per laurearsi campione, l'Uruguay era obbligata a vincere. Ma non si capiva come avrebbe potuto fermare quella squadra guidata da Ademir, che aveva firmato quattro delle sette reti (a una) messe a segno contro la Svezia (che aveva eliminato 3-2 l'Italia, campione in carica anche se di dodici anni prima) che sino ad allora era considerata la rivelazione del torneo.

L'Uruguay era squadra solida e poteva vantare un fuoriclasse come Pepe Schiaffino e "el capitan" Obdulio Varela. Un condottiero vero, l'unico nella Celeste a credere che quel pomeriggio dal Maracanà, lui e i suoi compagni, non sarebbero usciti senza coppa. Non si tratta della solita riscrittura della storia: Varela chiarì il suo pensiero a compagni e avversari prima della gara. Col rischio di coprirsi di ridicolo di fronte al mondo intero, certo, ma con la certezza di poter continuare a guardare se stesso e i compagni con lo stesso piglio da combattente e vincitore che lo aveva sempre contraddistinto sino ad allora e lo avrebbe accompagnato in seguito (Varela può vantare un record unico: l'Uruguay, in due partecipazioni Mondiali, con lui in campo non ha mai perso una partita). Per questo portò con sé nello spogliatoio una copia del giornale brasiliano "O Mundo" che in prima pagina già portava in trionfo Barbosa e compagni: «Ecco i campioni del mondo». Quel quotidiano venne utilizzato per urinarci sopra e catechizzare a dovere il resto della formazione uruguagia: «Mai persa una partita prima di giocarla».

Di fronte a 173.850 spettatori paganti (più altri trentamila, più o meno invitati) certi di golleare contro i vicini di casa uruguagi, il capitano uruguaiano mostrò a tutti di che pasta era fatto quel monumento che ricordava i grandi capi pellerossa, sistemato dietro a tutti, "protetto" alle spalle solo da un portiere intimorito dal pubblico e dalla bravura degli avversari. Ma il carisma di Varela è certo quello di uno che ha ballato una sola estate. Nel decennio in cui la coppa del Mondo era stata sospesa per il Secondo conflitto mondiale l'Uruguay capitanato da Varela aveva conquistato nel 1940, 1946 e 1948 la coppa Baron de Rio Branco e il Penarol, la sua squadra di club, vinto sei volte il campionato.

La fiduciosa tranquillità di Varela era parecchio contagiosa e solo così è possibile spiegare come abbia fatto l'Uruguay a non crollare dopo il gol del provvisorio vantaggio brasiliano, siglato da Friaca al 47’, e anzi ricomporsi per mettere a segno i gol di Schiaffino al 66' e quello, decisivo, di Ghiggia al 79'. Senza retorica: un uno-due che mette ko un Paese intero. Perché il dramma collettivo non assale solo i duecentomila spettatori del Maracanà ma tutta la nazione. Una ferita che nemmeno le imprese successive di Pelè, Romario e Ronaldo riusciranno a rimarginare, perché il Brasile il "suo" campionato del mondo lo ha perduto. Forse per questo Varela oggi è ricordato a Rio quanto a Montevideo. Ma un campione così chi l'ha visto non lo dimentica più.

Quattro anni dopo la vittoria in Brasile, Varela è il capitano dell'Uruguay campione in carica che prova a difendere il titolo in Svizzera. La guida calcistica e spirituale della Celeste ha ormai 37 anni, è il giocatore più vecchio del torneo. Ma la sua presenza non è un tributo-ringraziamento, è la semplice constatazione che con lui in campo "è tutta un'altra cosa". I campioni del mondo superano all'esordio 2-0 la Cecoslovacchia, poi 7-0 la Scozia. Nell'incontro dei quarti di finale contro l'Inghilterra, Varela si infortuna dopo 39', in assenza di sostituzioni resta in campo con la gamba fasciata praticamente immobile. Con lui in campo non si perde: 4-2 e inglesi a casa. Ma quello sforzo coinciderà con l'ultima partita mondiale di Varela, costretto a guardare la semifinale contro la "grande Ungheria" di Puskas che supera gli uruguagi 4-2 ai supplementari, firmando la prima sconfitta "mondiale" dal 1930 della Celeste, cui seguirà anche quella per 3-1 nella finale del terzo posto contro l'Austria. L'unico imbattuto rimarrà lui, capitan Obdulio, che si ritirerà dal calcio l'anno dopo. Quattro anni dopo l'Uruguay non riuscirà nemmeno a qualificarsi per i Mondiali, e il risultato migliore sarà il quarto posto nella coppa del Mondo 1970, vinta proprio dal Brasile.
Obdulio Varela muore a 78 anni il 2 agosto 1996, dopo alcuni mesi in cui le condizioni del suo cuore, già da tempo sofferente, si erano aggravate, dopo la morte all'inizio di quell'anno della moglie Catalina Keppel, compagna di una vita intera. Tutta la nazione, guidata dall'allora capo dello Stato Julio María Sanguinetti, si fermò per rendergli omaggio nel suo funerale.

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